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Centro Studi Franco Enriquez
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A Teatro con Enriquez

Teatro Cortesi Sirolo 29-30 aprile-1 Maggio 1985
dal 29 aprile 1985 al 01 maggio 1985


Titolo dell'intervento: "Grazie Franco"
Relatore: Maurizio Scaparro
in qualita' di: Direttore artistico del Teatro di Roma

Troppe volte, perché sia solo un caso, o un insistito ricordo, mi trovo a verificare il lavoro che una parte del teatro italiano ed europeo va facendo, con quelle che erano alcune esperienze vive di palcoscenico fatte da Franco Enriquez nei suoi intensi anni di vita teatrale. Viene fuori, con tante intense citazioni della memoria, una continua esplicita vitalità Mediterranea, quei legami talvolta solo citati con la fantasia e la piazza e il sole e il nomadismo dell'avventura teatrale, e Roma scelta non come comodo rifugio sedentario, ma al contrario per smuovere i vecchi vizi, le pigre abitudini. Si affollano i nomi di una cultura teatrale coerente a questo disegno, e scelti non casualmente da Enriquez come autori, Garcia Lorca, lonesco, Frisch, Becket, Pasolini, Parise, Braibanti, a comporre una mappa ben precisa e non comoda, anzi irrequieta, della nostra Europa. E i nomi, e gli spettacoli, si legano all'immagine prima che ho ricordato il giorno della mia nomina a direttore del Teatro di Roma; quel suo salire sui tetti dei Teatro Argentina, issare le bandiere di tutti i rioni romani, come un atto di gioia per un mestiere o un'arte che accigliati e funerei censori, o figli snob di un generone paraaristocratico e parapolitico romano, e non romano, andavano rimproverandogli di fare appunto con gioia. Niente di male se molti che oggi lo ricordano, hanno guardato con sufficienza le sue scelte non alla moda. Il ricordo, unica forza splendidamente non effimera di un'arte tragicamente effimera come il teatro, è testimonianza di quanto di nuovo e di vitale andava costruendo in teatro. L'affermarsi di una cultura mediterranea, non catalogabile per schemi, ma esistente nei testi, negli spettacoli, nei pubblici, il confrontarsi con le altrettanto affascinanti nebbie di un talvolta malinteso rigore mitteleuropeo, per rivendicare o ricordare valori che sembravano messi al bando, avvertire costante il bisogno della provocazione o del divertimento; questo e mille altre cose ancora era Franco. E il suo rapporto con l'attore. Inteso mai come strumento, ma come componente essenziale di un risultato teatrale, per cervello, fantasia, creatività, stimoli. E il suo rapporto con i tecnici, in palcoscenico, con gli scenografi, i musicisti, gli autori, tutti immediatamente inseriti nella sua multicolore vivacissima Barraca. Così che oggi, ricordando Franco, il suo nome si mescola, quasi si confonde, con i nomi anzitutto di Valeria Moriconi, che con lui ha costituito un sodalizio artistico che già diventa storia nel teatro italiano, e di Glauco Mauri, di Mario Scaccia, di Emanuele Luzzati, e di tanti altri giovani suoi amici e collaboratori, come Alessandro Giupponi, e meno giovani cari collaboratori fra i quali certo lui amerebbe che si ricordasse almeno Adelaide Zaccaria, che accanto a lui seguiva, come segue ora accanto a Valeria, i costumi di mille spettacoli, che sono frammenti di mille ricordi. E fra i tanti, in un angolo, certo la sua memoria ricorderebbe divertita anche un giovane critico dell'Avanti, che trascinò con forza e con affetto davanti a una grande folla di studenti nell'aula magna dell'Università di Roma, per parlare accanto a lui e ai suoi attori del tentativo di non diventare rinoceronti, a proposito di uno dei suoi non dimenticati spettacoli. Quel giovane critico conobbe allora Franco, cominciò anche grazie a lui a capire la splendida fatica del fare teatro, prese coraggio per amare il pubblico e il palcoscenico, e le nostre eterne illusioni: Grazie Franco.



Titolo dell'intervento: "Il sorriso di Franco"
Relatore: Ghigo de Chiara
in qualita' di: scrittore e critico teatrale

Franco sapeva sorridere: un lampo più arguto negli occhi, le labbra schiuse a infantile stupore e poi, se era il caso, giù una risataccia toscana. Di lui, il ricordo più sicuro è la vitalità: su e giù per le scalette del palcoscenico durante le prove ("oh via, ragazzi! Che bischerata è codesta?"), infaticabile, esuberante, trascinante. Alle battute giuste dei suoi attori sapeva divertirsi pure se le ascoltava per la centesima volta, alle battute sbagliate pestava i piedi, non da insegnante ma da compagno tradito: "O perché mi fai così?". Per lui il teatro era un fatto personale, una rissa con l'idea di spettacolo che non voleva venir fuori. E poi, vivaddio! Era uno che sapeva buttarsi a capofitto nel pozzo, rischiando con generosità: se la rappresentazione ne usciva brutta, pazienza. Ma se riusciva bella. quel "bello" così fantasioso, così giovane, così "baracconesco", portava sicuramente la sua firma e basta. Non lavorò mai col bilancino prudente del farmacista, attaccò sempre a martellate la sua materia come uno scultore invasato: e ci regalò emozioni indimenticabili. Ancora oggi, quando un copione esige un dippiù di coraggio, di fantasia, di colore, c'è qualcuno che dice: "Qui ci vorrebbe Franco". Di lui non si può parlare che da vivo. Perché era uno che c'era.



Titolo dell'intervento: "Una vita per il teatro"
Relatore: Raul Faroli
in qualita' di: Direttore dell'allestimeto scenico Maggio Musicale Fiorentino

Tanti anni fa conobbi Franco Enriquez durante le riprese di un film, mi sembra un Leonardo da Vinci. lo facevo la comparsa, Franco recitava una piccola parte e ricordo come fosse ora la meticolosa cura con cui indossava il costume e si truccava, preparandosi con grande professionalità (si dice oggi, allora era passione) a recitare come e meglio di un protagonista. Mi è rimasta nella mente quella immagine di giovane principe rinascimentale fino a quando l'ho riscontrato, regista affermato, durante un Maggio Musicale Fiorentino, alla Pergola, per le prove dell'opera La sposa sorteggiata. Da lì cominciò la nostra collaborazione. L'immagine che si era stampata nella mia mente si doveva rivelare come una sorta di realtà. Nel mio lavoro con Lui dovevo sempre più constatare la principesca magnificenza che sapeva infondere al proprio lavoro. Alle doti di cultura, di squisita raffinatezza, aggiungeva il piglio del condottiero che gli consentiva di realizzare appieno e senza compromessi i disegni del suo ingegno e della sua sapienza teatrale. E viveva così intensamente questo suo lavoro che tutto quanto preparava e rappresentava era parte di Lui non potendo prescindere dalla Sua prorompente personalità. Ho vissuto con Lui molte volte questa avvincente avventura; mi ricordo di quanto trasse con il M.° Muti, dai cassetti di Corrado Cagli, il materiale con il quale compose quel grande spettacolo che fu Agnese di Hohenstaufen. Avventura vissuta fino a quando la morte non ci ha tolto l'amico e il Maestro. Anche gli ultimi giorni della Sua vita li ha dedicati al Teatro con entusiasmo e speranza. Un giorno avanti la Sua morte parlavo di lavoro e di progetti con Lui che giaceva in un letto dell'Ospedale di Ancona.



Titolo dell'intervento: "Franco Enriquez, Venezia e il '68"
Relatore: Franco Cuomo
in qualita' di: scrittore

Ho almeno un paio di ragioni per conservare di Enriquez un ricordo importante. Primo: era uno straordinario compagno di strada, un parlatore inesauribile, un instancabile bevitore, sì insomma uno di quegli uomini spaventosamente vivi, in compagnia dei quali è difficile annoiarsi, perché anche andare a depositare un testo alla SIAE finisce per sembrare un'avventura. Secondo: gli devo una delle mie esperienze teatrali più inconsuete e movimentate, cioè la stesura di un testo ''politico" a quattro mani, che poi lui mise in scena alla Biennale nel settembre 1968, un testo nel quale ingenuamente - ma con molta generosità, ricordo bene - profondemmo insieme tutto lo zelo "rivoluzionario" che l'ambiguo clima dell'epoca ispirava. Benedetto '68! Eravamo entrambi in ritardo sui tempi della storia: io quasi trentenne, lui con qualche anno di più, ma affrontammo con euforia di neofiti l'idea (sua) di realizzare uno spettacolo che, partendo dalla Scuola di Barbiana, si espandesse idealmente fino al Vietnam e al Sudamerica, facendo leva su tutti i miti dell'epoca, dal Ché a Rudi Dutscoke, attraverso un'improbabile rivolta studentesca universale. Idee confuse, come si può ben vedere a quasi venti anni di distanza. Idee, tuttavia, cui ci abbandonammo con slancio febbrile, con un fervore perfino spropositato, certamente dovuto a suggestioni estetiche ("la rivoluzione è bella...") più che realismo politico e senso della storia. Inutile dire che tanto entusiasmo coinvolse l'intera Compagnia dei Quattro, ed ancora oggi ricordo l'appassionata partecipazione con cui attori provenienti da esperienze decisamente diverse, quali Adriana Innocenti e Piero Nuti, Umberto Ceriani e perfino Giuditta Saltarini non ancora in Rascel; oltre naturalmente a Valeria Moriconi (che, anche senza prendere parte allo spettacolo, fu presente ad ogni fase della sua preparazione), si tuffarono nell'impresa. Ne venne fuori in poco più di un mese un testo che, se rappresentato integralmente sarebbe durato otto-dieci ore: tale era la mole dei materiali che, sul filo della documentazione selvaggia, allora così in voga, avevamo finito per mettere insieme saccheggiando giornali e biblioteche "alternative", filmati e testimonianze. Ridotto a dimensioni ragionevoli lo spettacolo andò in scena con la grandiosità consueta di Enriquez, con un titolo anch'esso iperbolico: Discorso sulla "Lettera e una professoressa" della Scuola di Barbiana e la rivolta degli studenti''. Da Venezia a tutte le altre città in cui venne rappresentato, il Discorso fece tanto rumore e - ricordo con particolare compiacimento - anche tanta cassetta. Però era come il '68, qualcosa di effimero ed irripetibile, che in nessun'altra stagione si sarebbe potuto rimettere in scena. Come il '68. qualcosa da abbracciare o da respingere, con tante discussioni, tanto chiasso, tanti dibattiti. Franco Enriquez, si sa, adorava parlare tanto in privato quanto in pubblico: i dibattiti le assemblee, lo eccitavano. E se qualcosa non mancò mai, in quello spettacolo, furono appunto i dibattiti: c'era come una scintilla, che si sprigionava a un certo punto della rappresentazione, e che divideva il pubblico inevitabilmente, sollecitando in ciascuno dei due partiti creatisi in sala l'urgenza di affrontare l'altro in accesissimi scontri verbali. In genere era divertente. Una volta, però, fu drammatico - intendo intimamente drammatico - tanto per me che per Franco, e credo anche per quegli attori che più da vicino avevano seguito la genesi di questo indefinibile lavoro. Fu quando a Prato, nel corso della consueta bagarre, fummo contestati dagli ex alunni di Don Milani, da quegli stessi ragazzi della Scuola di Barbiana cui avevamo creduto di dare platealmente voce con il nostro spettacolo. Ma la stagione volgeva al termine, ed anche i bagliori del '68 andavano lentamente perdendo l'originale suggestione. Franco lavorava già alla sua messinscena successiva: La Dame di Chez-Maxim di Feydeau. lo scrivevo una mia storia di Giovanna d'Arco. La rivolta degli studenti era orinai lontana, seppure incompiuta. Ed anche le interminabili assemblee cui, grazie al cielo, non avremmo partecipato mai più.



Titolo dell'intervento: "Franco Enriquez in Sicilia"
Relatore: Diego Gullo

Ricordo Franco Enriquez, quando lasciò la Direzione Artistica del Teatro di Roma. Sapeva di non meritare questa abdicazione per l'impegno che aveva profuso nel suo lavoro e per l'attività che aveva intrapreso e che altri avrebbero potuto portare a compimento. Ma non si arrese e nell'ambito delle compagnie private, che certamente non avevano la struttura organizzativa capace di sostenere le sue ultime iniziative, compì una operazione di orgoglio da vecchia Guardia Imperiale. Ed a questa iniziativa diede tutto se stesso, dall'Enriquez regista dalla geniale inventiva, dai tempi perfetti, dalle entrate calibrate e felici all'Enriquez attore, che ambiva sempre ad essere al centro della scena. Parlo dei Gattopardo, il famoso romanzo di Tomasi di Lampedusa, che con la riduzione teatrale dello scrittore siciliano Belfiore, andò in scena nella stupenda cornice del Teatro Greco di Tindari. Franco Enriquez campeggiava con la sua figura di principe ormai malinconico. Era una Compagnia che si era formata avventurosamente, ben diversa per solidità e sicurezza da quelle cui era abituato Enriquez. Attori numerosissimi, canti, inserimenti dei mondo siciliano, accostamenti senza paure al modello Viscontiano con la presenza di filmati, tanti tecnici, scene e costumi strabilianti. Al centro, avvolto in un mantello che metteva ancora più in evidenza i colori scelti per dare risalto alla principessa figura dell'ottocentesco principe siciliano, Enriquez dominava un'annata decadente che si stringeva accanto a lui in una ricerca di sicurezza che non c'era più. Anche Fabrizio Salina aveva vissuto, sostegno di un mondo che scompariva e aveva dato con la sua aristocratica immagine l'impressione che la solidità dei suo casato fosse ancora reale. Franco Enriquez fu il Gattopardo. Ne comprese la malinconia struggente, l'impossibilità di opporsi alla volgarità invadente del nuovo ad ogni costo, la necessità di restare al proprio posto di protagonista anche quando gli eventi erano contrari. Eppure, mentre fu sua la filosofia del protagonista, non lo fu quella dell'opera. Il Gattopardo è passato alla storia anche perché è stato accettato come presa d'atto della inevitabilità che tutto cambi purché tutto rimanga come era. Non fu così Enriquez che cercò sempre di cambiare le cose perché cambiassero veramente. E qui va ricordato che, accanto alle sue grandi produzioni, al Teatro di Roma si diede spazio al Teatro di ricerca e sperimentale, e il Direttore Artistico volle porre una bandierina, autenticamente esposta, in tutti i Teatri di Roma che ospitavano compagnie che si avvale- vano della struttura del Teatro Stabile e che vi erano collegate. Al Teatro di Roma Enriquez volle dare proprio questo titolo, eliminando la parola "stabile" che poteva sembrare limitativa di ciò che egli concepiva come teatro a gestione pubblica della Capitale: non un concetto assorbente e soffocante delle attività altrui, ma una immagine di presenza totale, non da contrapporsi ma da confrontarsi con emulazione felice rispetto alle iniziative private e cooperativistiche di cui Roma è ricca. Enriquez quindi concepì il Teatro di Roma non soltanto come palcoscenico dei Teatro Argentina, ma come presenza attiva ovunque fosse possibile mettere un evento teatrale di fronte al pubblico che doveva assistervi e che egli rispettò sempre. A lui si deve l'iniziativa dei Teatro Circo a Piazza Mancini, che sarebbe dovuto rimanere di proprietà del Teatro di Roma. Alcuni spettacoli, ad esempio "Kasimir e Karoline", e "Divinas Pallabras" furono concepiti perché adatti a quello spazio, con una visione del rapporto fra l'opera e il luogo di rappresentazione che fu sempre straordinariamente felice. A lui si deve l'omaggio a Ennio Flaiano cui dedicò il piccolo teatro, erede del vecchio Arlecchino, e che è un gioiello al centro della città, sempre pronto ad accogliere nuovi fatti per un pubblico più ristretto ma con una cassa di risonanza assai più ampia della sua capienza. Non c'è da contare i suoi spettacoli all'Argentina, alcuni delicati e morbidi come "Gli Innamorati", altri tesi all'ansia delle novità rischiose. Ma questo fa parte delle regole dei gioco e del coraggio che permette di uscire dal sicuro tradizionale. Senza saperlo, forse, Enriquez chiuse la sua stagione abbassando "Il Sipario Ducale" di Volponi. Ma Enriquez non fu soltanto il Direttore-regista di un grande teatro pubblico, fu uomo che visse le tavole del palcoscenico anche quando erano molto meno sicure e si affidò alla collaborazione leale di straordinari compagni di lavoro di cui fu guida con la Compagnia dei Quattro. Ai primi anni '60 mise in scena una indimenticabile e insuperata "Bisbetica Domata" con Valeria Moriconi e Glauco Mauri. Forse i soldi non erano tanti, e questo permise a Emanuele Luzzati di creare genialmente scene che avevano elementi semplicemente e magicamente trasformabili. Quando l'opera fu rifatta con mezzi certamente più ampi dello Stabile, la magia ebbe a ripetersi: segno questo che a volte la povertà aiuta l'ingegno almeno quanto a volte possa la ricchezza. Quale è stato il momento più alto dell'attività creativa di Enriquez? Il Maggio Musicale, S. Miniato, Roma? E' difficile a dirsi ma mi piace ricordare una indimenticabile notte al Teatro greco di Siracusa. Si erano spente le ultime battute di Medea. Il nero carro, che dietro le quinte robusti macchinisti avevano fatto volare in cielo trattenendolo con delle corde invisibili, stava altissimo e le donne corinzie entravano con i lumi sulla scena buia a siglare la tragedia. Il pubblico innumerevole si alzò in piedi per una ovazione interminabile e Valeria Moriconi cadde svenuta per la tensione e la fatica. Franco Enriquez corse a prenderla fra le braccia, con un amore di teatro e di uomo che era per lui una unità inscindibile. Un abbraccio che adesso non può più ripetersi.



Titolo dell'intervento: Quando Franco ''nacque'' alla regia"
Relatore: Paolo Emilio Poesio
in qualita' di: scrittore e critico teatrale

Sono rimasto, oramai, l'unico critico teatrale di Firenze che abbia assistito al debutto di Franco Enriquez come regista nel teatro di prosa. Poco importa se ufficialmente le biografie fissano l'avvenimento al 1951, per Cesare e Cleopatra di G. B. Shaw, la verità che bisogna fare un passo addietro di due anni abbondanti Lo stesso Franco, nell'ultima lettera che ho ricevuto da lui pochi mesi innanzi la sua immatura scomparsa mi scriveva, a proposito del progettato Otello con Nando Gazzolo: "Carissimo Paolo, ti mando queste prime foto del "nostro" Otello, con qualche notiziola - anticipazione (... ) nella notizia per La Nazione ci terrei moltissimo che tu con il tuo garbo aggiungessi che dedico il nostro Otello a Cesare Lumachi - bravissimo fotografo di Piazza dei Duomo che aprì a sue spese! il Rondò di Bacco facendovi debuttare, oh che fiuto, Albertazzi come protagonista del Candeliere, Piero Tosi scenografo e costumista e F.E. come regista! E che, spettatore severo felice e commosso all'ultima replica dei Gattopardo al Niccolini abbracciandomi in camerino mi ha detto: 'Ma che aspetti a fare Otello?' In effetti, Cesare Lumachi, eccellente fotografo d'arte, già a capo di una compagnia amatoriale a Empoli, trasferitosi a Firenze sul finire della seconda guerra mondiale, aveva aperto a proprie spese il Teatro della Meridiana (molti anni appresso ribattezzato Rondò di Bacco) per farvi agire una propria compagnia amatoriale con un repertorio di alta qualità le cui regie erano in parte sue e in parte affidate ad altri. Per Il candeliere di Alfred de Musset volle a interpreti Giorgio Albertazzi e Bianca Toccafondi per scenografo - costumista l'esordiente Piero Tosi, per regista Franco Enriquez. Che non aspettava altro. Perché Franco era nato regista. L'ho conosciuto adolescente, tutto infervorato delle teorie di Antonin Artaud, l'ho frequentato a lungo quando era studente universitario - la differenza di età era forte ma ci sentivamo coetanei nel segno del teatro - e se tomo con la memoria ai primi anni del dopoguerra mi rivedo impegnato con Franco e altri giovani amici in interminabili discussioni notturne sulla via di Fiesole. Ore meravigliose in un mondo che ci sembrava promettersi aperto alle speranze più nobili, alle certezze più lucide. Esuberante, passionale, capace di infiammarsi e di tempestare di diluvi verbali gli avversari in contraddittorio, ma capacissimo altresì di tutto risolvere in una di quelle sue travolgenti risate a gorgoglio, Franco parlava di teatro, respirava teatro. Il palcoscenico lo attraeva non tanto come attore, quanto come regista: provò a recitare nel ruolo di Malvolio in una Dodicesima notte del Centro Universitario Teatrale, ma subito si scontrò con il regista dello spettacolo, il giovane e valente avvocato Giancarlo Giannozzi la cui lettura dei personaggio non collimava (starei per dire, ovviamente) con quella di Enriquez. L'unica volta che l'ho veduto in veste di attore - prima, dico, delle famose Notti bianche - fu all'ultimo atto di Peccato che fosse una sgualdrina che Luciano Lucignani aveva messo in scena per il Piccolo Teatro della Città di Firenze nato alla fine del 1949 e morto ai primi del 1950. Franco era stato assistente di Lucignani, ma aveva anche accettato di vestire la porpora di un cardinale per mancanza di attori che accettassero una così minuscola parte. Divago. Troppe memorie si accavallano nella mia mente se rievoco il nome di Franco, mentre qui non voglio parlare degli anni suoi più fattivi, gli anni dei Quattro, dello Stabile di Roma e via dicendo. Mi piace tornare alla lontana sera del Candeliere nella saletta che Lumachi aveva voluto tutta velluto rosso e fiori. Quel regista poco più che ventenne che avrebbe potuto finalmente mettere in pratica le sue più audaci teorie non si preoccupò affatto di sbalordire il pubblico con una lettura del testo "alla maniera di Artaud" o "alla maniera di Stanislawskij", preferendo, da autentico uomo di teatro, mettersi al servizio dei testo piuttosto che al servizio e propria immagine. Guidato da quel suo naturale e prodigioso istinto che nel corso degli anni si sarebbe arricchito dei frutti dell'esperienza, Franco regolò il gioco degli attori in assoluta aderenza allo spirito di Musset senza per ciò scivolare mai nel vieto a nell'approssimativo. Dal canto loro gli attori (due soli dei quali - Giorgio Albertazzi e Bianca Toccafondi - avrebbero poi calcato i grandi palcoscenici: il belle e aitante Clavaroche, ufficiale dei dragoni era un giovane funzionario di una compagnia di assicurazioni e nella stessa compagnia continuò la sua brava carriera), gli attori, dicevo, seguirono il regista con la stessa professionale intelligente disciplina che avrebbero altrimenti riservato a un maestro sperimentato. Fu un grande successo, il primo dei moltissimi che poi avrebbero illuminato la strada di un uomo che ha dato al teatro italiano molto più di quanto il teatro italiano non gli abbia riconosciuto: e basterebbe guardare con occhio attento alla varietà degli autori che Franco Enriquez ha per primo affrontato o che ha riletto, e fatto rileggere al pubblico, in una chiave nuova e più fresca, più genuina per rendersi conto del debito che la nostra scena di prosa contrasse con lui. Tra i pregi umani di Franco Enriquez ci furono, certamente, la costanza dell'amicizia e il senso della riconoscenza. La lettera che ho riportato, lo testimonia. A distanza di più di trent'anni, il suo Otello avrebbe dovuto essere dedicato a colui che, primo, gli aveva messo a disposizione un palcoscenico, degli attori, uno scenografo e costumista. Sarebbe forse esagerato dire che quella serata fiorentina al Teatro della Meridiana fu un ricordo costante nella tumultuosa vita artistica di Franco Enriquez: ma non credo nemmeno sia giusto affermare che avesse accantonato in un dimenticatoio i primi applausi, e che se ne sia ricordato solo quando Cesare Lumachi lo andò a salutare in camerino, al teatro Niccolini di Firenze, al termine di una rappresentazione del Gattopardo. Penso che, anzi, Franco ripensasse di tanto in tanto a quel se stesso lontano che gli riconduceva, fra gli altri fantasmi del passato, l'immagine di una giovinezza che non si era mai spenta nel suo cuore.



Titolo dell'intervento: "Franco Enriquez a Siracusa"
Relatore: Prof. Filippo Amoroso
in qualita' di: Istituto Nazionale del Dramma Antico

Al nome di Franco Enriquez è legato un breve significativo periodo della storia degli spettacoli classici di Siracusa. Tra il 1968 ed il 1972, Enriquez ha realizzato quattro spettacoli da tragedie euripidee, mentre il suo primo contatto con la scena di Siracusa risale a molti anni prima quando fu assistente alla regia dell'ORESTEA, testo col quale ha poi chiuso a Monaco le grandi regie di drammi antichi. E' questo un periodo molto importante della sua vita e della sua carriera, momento rigoglioso e creativo, ora violentemente impulsivo, ora tenacemente riflessivo, di cui i risultati artistici siracusani sono uno specchio di dilatante fedeltà. Furono, per la storia, le FENICIE nel 1968, l'IPPOLITO e l'ELETTRA nel 1970, la MEDEA nel 1972 eventi di grande successo popolare, per lo più accettati, talvolta con riserve che però seppero tenere in debito conto la particolarità delle realizzazioni, anche dalla critica e dagli studiosi, sia specialisti di teatro che rigorosi filologi. Memore forse dell'esperienza di Pasolini e Gassman, Enriquez, formidabile per effetto provocatorio e resa antiaulica, ma inesatta e scorretta fino alla mistificazione, si imponeva cautela e lavorava con grande cura e deferente rispetto del testo e, nel caso delle FENICIE ed ELETTRA, non si preoccupò di appesantire lo spettacolo pur di non imporre snaturanti tagli, conscio del compito di presentare alla conoscenza di un vasto pubblico di tutte le età e condizioni un antico testo, oltre quello di allestire un moderno spettacolo. E anche registicamente si propose talvolta di rallentare i ritmi, lui che era bravissimo a prendere i testi d'infilata e, colmo per la sua storia di artista, gli fu anche rimproverato, colpa di un reverente culto per l'antico di cui anche si compiaceva, di sbagliare per difetto, anziché per eccesso. Pertanto, in quei suoi spettacoli, non mancò, specie all'inizio della rappresentazione, una nobile veste di compostezza, un momento di pacata degustazione della parola, che Enriquez sapeva poi sfruttare come preludio contrastante con l'esplosione dei grandi sentimenti, che realizzava poi attraverso il tentativo, non privo di tutti i biechi artifìzi del mestiere, di toccare ogni tasto della commozione del pubblico, che egli riconosceva sempre come protagonista e che visceralmente gli corrispondeva. Così, attraverso costumi sgargianti e fiammeggianti acconciature, suoni di pifferi e rulli di tamburi, sfruttando ogni entrata ed uscita dei personaggi, o a cavallo o con portantine o con vasti seguiti di armigeri, con effettacci e macchinerie per le apparizioni e le sparizioni, creò spettacoli che ebbero una chiara impronta operistica, seppe comprendere e vivere principescamente il gusto delle feste classiche siracusane, che và al di là dell'evento teatrale, tanto che la fiaccolata finale, sopra ogni senso, era per Franco Enriquez un diritto inalienabile del pubblico. Si parlò allora, dopo queste prove, di uno "stile Enriquez" ricco di ogni ingrediente per un sicuro successo. Ma i suoi meriti vanno ben oltre. Enriquez, per primo, affrontò, capì e, con l'aiuto considerevole di Luzzati, risolse e esemplificò variamente il problema delle scenografie al Teatro Greco di Siracusa: l'esigenza di non costruire le scene, di non imporre a un'ambientazione significativa una mole di cartapesta priva di legami culturali con il luogo, deformante lo spazio, condizionante per magniloquenza non solo la regia e lo spettacolo, ma finanche l'intelligenza dei testi, soprattutto nel caso di Euripide. In queste ambito la sua lezione è stata seguita e il suo discorso artistico ha ottenuto significative espressioni, fino all'ultimo ciclo di spettacoli che ha dovuto fare i conti con nuovi problemi proposti dalle scelte relative alla tutela del monumento. Altrettanto rilevante fu il suo impegno per la realizzazione dei cori, di cui amava studiare la misteriosità dell'uno che si fà tanti e dei tanti che parlano all'unisono. Pretendeva la perfetta intelligibilità delle parole e dei canti, e, lamentando il breve tempo a disposizione, spronava a fatiche straordinarie tutti i suoi collaboratori. Come abitualmente ad ogni artista lasciava spazio per l'espressione più congeniale del proprio talento, da Lele Luzzati e Santuzza Calì a Mikis Theodorakis, da Angelo Corti e Marisa Flach a tutti gli attori che diresse con il consueto amore: da Tino Carraro, da Olga Villi, da Carla Gravina, da un giovane Pambieri seppe ottenere splendide interpretazioni, ma rimane memorabile la MEDEA di Valeria Moriconi che ancora oggi viene continuamente additato come punto massimo successivamente inarrivato di emozione e immedesimazione del pubblico. Per questi alti meriti, l'Istituto Nazionale del Dramma Antico lo ha voluto per primo ricordare conferendo alla sua memoria con una significativa motivazione il premio Eschilo d'oro per il 1981, premio che, nato sotto una veste di mondanità pur se assegnato a grandi personalità, da quindici anni a questa parte si conferisce solo a pochissimi i quali con la propria opera, ma soprattutto con l'ampia umanità, di cui Franco Enriquez fu sempre generoso dispensatore, hanno saputo dare uno storico contributo alla crescita ed alla diffusione del Dramma Antico.
MOTIVAZIONE DEL PREMIO "'ESCHILO D'ORO" ASSEGNATO A FRANCO ENRIQUEZ NEL 1984 A SIRACUSA DALL'ISTITUTO NAZIONALE DEL DRAMMA ANTICO La Commissione per il riferimento del premio "Eschilo d'oro " 1984, nominata dal Commissario e costituita dallo stesso Commissario prof. Giusto Monaco, presidente, del socio avv. Corrado Piccione, e dal soprintendente archeologico dott. Giuseppe Voza, si è riunita nella sede dell'INDA il giorno 18 maggio 1984 alle ore 16. Considerati i precedenti e tenuta presente la finalità del premio, che è quella di riconoscere i meriti di personalità distintesi negli studi e nelle attività del teatro antico, la Commissione ritiene opportuno che per il 1984 si proceda all'assegnazione di due premi, uno ad un archeologo ed uno ad un uomo di teatro. L'uomo di teatro è il regista Franco Enriquez, studioso ed interprete della drammaturgia antica tra i più sensibili e avveduti, prestigioso collaboratore dell'INDA, particolarmente negli anni in cui curò la regia delle "Fenicie" di Euripide (1968), "dell'Elettra" di Sofocle e "dell'Ippolito" di Euripide (1970), della ''Medea " di Euripide (1972). I successi ripetutamente decretati a Franco Enriquez dalla critica e dal pubblico, trovarono luminosa conferma a Siracusa.



Titolo dell'intervento: Quanto gli siamo debitori
Relatore: Emanuele Luzzati
in qualita' di: scenografo

Quanto gli siamo debitori Tre anni fa, per il catalogo della Mostra Postuma della Scenografa Chicca Gambaro, avevo scritto una breve testimonianza soprattutto sul suo debutto dovuto a Franco Enriquez e vorrei riportare quelle poche righe perché esprimono sinteticamente ciò che è stato Franco per noi. Erano gli anni '60 molto duri e difficili per chi voleva entrare in teatro; erano finiti gli anni felici del dopoguerra in cui tutto ricominciava daccapo, il talento e non il nome apriva le porte del palcoscenico e di qualsiasi altra impresa artigianale e non erano ancora arrivati gli anni dell'avanguardia, dei teatrini delle cantine, in cui tutti potevano sperimentare e da cui è uscita la seconda generazione di scenografie di registi. In quegli anni c'era solo una persona nel mondo dello spettacolo che non aveva pregiudizi, che non badava ai nomi, ma si basava più sul suo istinto di scopritore e riusciva a vincere ogni resistenza da parte di impresari o direttori col suo fascino dirompente: parlo di Franco Enriquez, che ha aperto le porte a mezzo teatro italiano, per generosità, per intuizione, per divertimento, per sfida; e più mi guardo indietro e più mi accorgo quanto il teatro dal '60 in poi gli sia debitore e quanto poco ancora oggi gli sia stato riconoscente.



Titolo dell'intervento: "Un cappello a grandi tese"
Relatore: Leonardo Pinzauti
in qualita' di: critico

Con Franco ci conoscemmo per caso, all'università; e ora, a ripensarci, capisco che era già lui, non ancora ventenne, il Franco Enriquez che in seguito avrei dovuto recensire come regista: lui sempre così curioso di verificare nelle immagini - nella manualità delle immagini, sarei tentato di dire - quel che passa - va attraverso la sua fantasia sempre inquieta e sempre affettuosa, diversa da quella di tutti gli altri che mi è capitato poi di conoscere, anche più bravi di lui, talvolta, ma mai come lui innamorati di quel che stavano facendo. E ripensando proprio a queste sue "prese dirette" con l'opera d'arte capisco che per lui la regia, lo star dentro il teatro, il lasciarsi coinvolgere (ma per coinvolgere, per comunicare, per sperimentare e verificare) era davvero il suo modo di vivere, la sua moralità di intellettuale e di artista. Che ci fosse poi nel suo destino la musica, e la musica come fatto primario, e quasi simbolico del "di più" a cui la musica conduce, lo mostrò già quel nostro lontano incontro universitario: allora la musica non era di moda, come si sa, nemmeno nelle aule universitarie, e fu lui, non so come, che un giorno apparve nell'aula di Mario Casella, il grande filologo romanzo che teneva un corso su Jaufrès Rudel, e quasi bruscamente mi disse: "Ma tu non sei anche musicista? Porta una viola, domani, e così faremo sentire a tutti questi pecoroni come si cantava "lanquan li jorn son Ionc en mai": l'ho già detto a Alfredo Bianchini, che canterà..." Franco allora portava un cappello a grandi tese, di quelli che non portava nessuno, ed era bellissimo, e forse, chissà, quando il giorno dopo s'infervorava ad ascoltare le melodie trovadoriche forse le ragazze della facoltà di lettere guardavano lui, più di quanto non stessero ad ascoltare Bianchini e me, timidissimo "partner". Ma quel giorno, per me, fu l'inizio di un colloquio che è durato fino all'ultimo: vidi la sua prima regìa del Don Chisciotte di Paisiello al Teatrino di Corte del San Carlo di Napoli (Vittorio Gui era sul podio) e cominciai così, lui di là ed io di qua dalla ... barricata, a seguire le sue realizzazioni, fino all'incontro con Muti (di cui fu fra i primi ad accorgersi, col suo finissimo intuito musicale) e alle cose importanti che fece con lui. E anche se non posso dire di aver assistito a tutto quello che la sua inquieta fantasia ha ideato in tanti anni, quel che mi ha sempre colpito era il coraggio con cui chiedeva a se stesso la verifica di quel che andava di volta in volta immaginando: pronto a cambiar rotta, ma dopo aver sperimentato nel vivo della propria passione autentiche avventure personali, che poi erano il motivo stesso della sua vita di intellettuale e di creatore. Per questo la storia delle sue regie musicali (e credo del resto anche di quelle realizzate nel teatro drammatico, fino alla compromissione personale come attore) è la storia dei suoi innamoramenti e delle sue infatuazioni musicali; e colpiva nel segno proprio per questo suo amore, che significava rispetto, profondissimo anche se mai accademico, ed era di fatto una lezione di coerenza, in un tempo che stava preparando le più presuntuose e commercialistiche nefandezze nell'arte di inventare fatti teatrali.



Titolo dell'intervento: "Teatro con amore"
Relatore: Bruno D'Alessandro
in qualita' di: Direttore Generale dell'E.T.I

Ricordare Franco Enriquez, per me, significa non cedere assolutamente alla tentazione della commemorazione. Se c'è un personaggio del mondo dello spettacolo che è sempre stato alieno da certe retoriche ufficiali e dalle formalità conseguenti, questi è sicuramente Franco Enriquez. lo l'ho conosciuto proprio all'inizio della sua carriera (quando anch'io cominciavo ad occuparmi di teatro, facendo un po' di tutto dietro le quinte del teatro Quirino) e mi piace parlare di lui come se ancora dovessi inseguirlo per bloccarlo un attimo nella sua frenetica attività, sentendomi rispondere con affettuosa ed allegra impazienza: "Oh pallino... che problemi ci sono? Tutto si aggiusta, tutto si sistema. Il teatro è la vita, la mia vita è il teatro... ed in teatro si va sempre in scena... non ci si può permettere di fermarsi... il sipario si alza e devi essere pronto a raccontare qualcosa, a parlare, a mentire ... perciò stai tranquillo che andremo in scena sempre e dovunque, magari con il fiatone, magari inchiodando l'ultima asse della scena mentre si apre il sipario, ma quando si abbassano le luci ed il magico gioco comincerà noi saremo lì per fingere di essere da un'altra parte, pronti al gioco, divertendoci per divertire". Quando Franco organizzò, proprio al "Quirino", "I pomeriggi dei Quattro" ricordo che erano i primi tempi in cui si portavano in scena i testi di Samuel Beckett e Jonesco. Franco fu fra i primissimi in Italia ad avere il coraggio di certe novità, quando ancora convogliare pubblico di pomeriggio e per giunta per farlo assistere a rappresentazioni "scabrose" era un'autentica scommessa. Ma con Franco i pomeriggi erano esaltanti. Il contatto con il pubblico giovane era un'autentica novità che ci portava a rivoluzionare le consuetudini dei rapporto sala - palcoscenico e per di più ci dava una nuova misura dell'evoluzione di un modo di fare teatro che sarebbe diventato, poi, uno dei fatti caratterizzanti gli ultimi decenni. La vitalità, l'esuberanza, la simpatia, il calore, l'intelligenza, la creatività, l'intuizione, la genialità, la generosità, l'improntitudine, la schiettezza, la bontà di Franco Enriquez non sono ricordi cancellati dall'inesorabile passare degli avvenimenti, ma punti di riferimento quotidiano per chi fa il mestiere del teatro in maniera "totale", buttandosi, come Franco insegnava, senza risparmio, con felicità, in un lavoro che si può svolgere in tanti modi, ma che non può prescindere da una componente che in Franco Enriquez rappresenta l'elemento caratterizzante l'intera sua vita appassionata: l'amore. L'amore per tutto e per tutti, ma in primo luogo l'amore per il teatro.



Titolo dell'intervento: "Ricordo di Franco Enriquez"
Relatore: George Christie
in qualita' di: Direttore del Festival di Glyndebourne

Franco e suo fratello Giorgio vennero a Glyndebourne per le vacanze scolastiche nel 1948 o nel 1949 quando il loro patrigno, Vittorio Gui, stava dirigendo "Così fan tutte" e "Un ballo in maschera". Franco, poi, tornò in Inghilterra nel 1952 per curare la regia, in età straordinariamente precoce, della "Norma" al Royal Opera House, Covent Garden, con il patrigno che dirigeva e con la giovane Maria Callas nella parte principale e la più anziana Ebe Stignani nel ruolo di Adalgisa. Fu soltanto nel 1960 che ritornò di nuovo in Inghilterra per lavoro, per mettere in scena una nuova produzione de "I Puritani", a Glyndebourne, con Joan Sutherland e ancora Gui come direttore. Fu nel 1963 che iniziò seriamente il rapporto con Glyndebourne, producendo, nello stesso anno, "Die Zauberflote", un'opera di fantasia e immaginazione, progettata da Emanuele Luzzati. Gli allestimenti scenici consistevano principalmente in colonne mobili a tre facce e i cambiamenti di scena si effettuavano con un movimento coreografico delle colonne che rivelavano in questo modo una faccia diversa della loro decorazione e assumevano una diversa disposizione. Nel 1962 ricevetti da mio padre la direzione di Giyndebourne e mi sentii come se avessi assunti - per fortuna, più che per merito personale o per capacità inventiva - il ruolo di un Diaghaley dei dopo guerra. La produzione di Franco dal 1964 al 1965 (compresi) a Glyndebourne includeva, in ordine cronologico e non: Macbeth, Anna Bolena, Didone e Enea Don Giovanni Die Entführung aus dem Seraíl Così fari tutte. In tutte queste produzioni, fatta eccezione per "Bolena" e "Didone", ebbe al suo fianco come scenografo quel vulcano di risorse e inventiva di Luzzati che con Franco, Valeria Moriconi e Glauco Mauri fondò, agli inizi degli anni '60, la Compagnia dei Quattro. Nel 1964, il quarto centenario della nascita di Shakespeare, Glyndebourne rese il suo omaggio chiamando la Compagnia dei Quattro, con Glauco Mauri nel ruolo di Petruccio e Valeria Moriconi in quello di Caterina ne "La bisbetica domata", una produzione di Franco di elettrizzante vitalità. Franco fu grande amico mio e di mia moglie. Fisicamente, si imponeva. La sua personalità era superiore alla norma, autorevole e maestosa. La sua voce imperiosa, e il linguaggio a volte pacato, lungi dall'imperioso. ma la sua intelligenza e il suo humour erano acuti, e la sua mente di larghe vedute. Era di una generosità enorme, del tipo "il domani non esiste" e il suo modo di vita alquanto sregolato, ma altamente seducente. Temo che le esigenze dei suo stile di vita colpirono duramente questo "bucaniere" del teatro. Noi siamo stati privati di un amico e il teatro di uno spirito creativo di notevole talento.



Titolo dell'intervento: "Teatro con la T maiuscola"
Relatore: Franco Bruno
in qualita' di: Presidente dell'AGIS

Quella di Franco Enriquez è una memoria presente a quanti Gli sono stati e rimangono amici, di un'amicizia consolidata dal comune lavoro nello spettacolo. Mi piace pensare, oggi, a come Franco reagirebbe a questo invisibile, ma pressante processo di omologazione culturale verso il basso imposto, e non proposto, dallo sviluppo tecnologico e di massa dei mezzi di comunicazione sociale. Sicuramente con un'alzata di spalle; un borbottio toscaneggiante e, poi, qualcuna delle Sue fulminanti e geniali idee che hanno incantato il pubblico, italiano ed internazionale, che ha visto ed applaudito i Suoi spettacoli. Franco Enriquez. Una volta ho avuto modo di parlare di Lui come de "il babilla" del teatro italiano. Sicuramente non nel senso storico che si attribuisce al termine, ma alla funzione che esercitava con vitalità, e convinzione, di "queta movere"; di tirarsassi, anzi, macigni, sani e duri macigni nelle acque stagnanti dei conformismo, culturale o burocratico. Nel reinventare non tanto il fatto artistico - questo era, in fondo, la Sua vocazione individuale - quanto la professione teatro, con amore e passione, tali da suscitare, nell'interlocutore, volontà di capire, approfondire e voler navigare nel grande oceano del teatro che Franco Enriquez ha percorso per esteso, sotto il segno della novità e dell'estemporaneità, ma non dell'improvvisazione né della superficialità. E dietro a tutto, il rigore di una professionalità tirata fino allo spasimo, di una convinzione nel proprio lavoro che ben conoscono quanti sono stati da Lui diretti sul palcoscenico, ad iniziare da Valeria Moriconi, che desidero unire a questa mia testimonianza per e con Franco Enriquez, un nome ed una personalità che non necessitano di aggettivazioni, destinate come sono a restare nella storia del teatro, con T maiuscola.



Titolo dell'intervento: "Due mondi s'incontrano ovvero storia di un'amicizia"
Relatore: Gian Mario Faletti

Un famoso "teatrante" a tutto tondo incurante del danaro, l'uno. Un semplice "teatromane" conflittualmente coniugato alla finanza, l'altro. Ecco i protagonisti dell'avventura culturale ed umana tra Franco Enriquez e me. Molti gli aspetti che ci separavano: il suo estetico disordine d'artista contro la mia noiosa, anche se forse acquisita, regolarità; il suo istintivo impeto contro la mia imposta riflessività. Ma furono le stesse diversità ad attirarci reciprocamente fino a permetterci di scoprire alcuni fondamentali tratti, in qualche modo convergenti. Innanzitutto il "rischio" (che invano ormai ''proustianarnente" ricerco), vissuto si intende in modo diverso: da Franco come la naturale forma di espressione della sua personalità, e da me con un brivido di ammirazione per il suo coraggio. E poi, la "fantasia": per lui di inventare tutto e sempre, per me di rendere qualche volta possibili le sue utopie. In fine la gioia di vivere, nella quale si annullava qualunque differenza tra di noi. In più, al di sopra di me, Franco Enriquez aveva naturalmente molte altre cose. Fra di esse è rimasto nel ricordo mio, e spero di molti altri, l'entusiasmo generoso emblematicamente racchiuso nelle bandiere festosamente issate sul Teatro Argentina; da lui aperto all'avanguardia allora ancora "cantinara", ai maestri e ai colleghi sia italiani che stranieri, alle sedi "circensemente" decentrate, agli esperimenti sulla drammaturgia contemporanea. Ma si sa, fra persone "avide" di scambi intellettuali, un gran numero di pregi e qualità in un vero amico, è solo motivo di più profondo sentimento e di più grande affetto, nonché, purtroppo di più acuto senso di vuoto quando viene a mancare.



Titolo dell'intervento: Una "capretta" per Franco
Relatore: Luciano Marrucci
in qualita' di: Ex Direttore Istituto del Dramma Popolare di S.Miniato

Ci sono delle telefonate che non hanno bisogno di registrazione per essere ricordate... "Sono Franco Enriquez; forse mi conosce. Ho un testo su Abelardo e Eloisa. Lo potete leggere per un giudizio?" "Il tema ci può interessare. Spedisca il testo. Oppure possiamo stabilire un incontro in settimana..." "Per me va bene domani l'altro domani... E se vengo subito costà, per lei, va bene?" Quella stessa sera Enriquez era sul prato del Duomo. Mi raccontò di aver lavorato sul tema durante il periodo di ingiusta detenzione nel carcere di Rebibbia. Aggiunse che il lavoro di ricerca lo aveva aiutato molto in quel periodo. Era aperto e toscanamente confidenziale, ma nel gesto di porgere il manoscritto manifestò l'umile trepidazione con cui un alunno consegna il suo compito. Un regista che si presentava come autore, un autore che intende realizzare sulla scena il proprio testo: era la prima volta che succedeva qui a San Miniato. Fu letto comunque con interesse. Franco Enriquez dimostrava di aver fatto un buon lavoro di ricerca affidandosi alla guida del teologo Gilson e forse alla traccia del commediografo Duncan. Aveva accortamente introdotto alla lettera le stupende missive di Abelardo e di Eloisa, utilizzando vari stralci dell'epistolario di Bernardo di Chiaravalle e di Pietro il Venerabile. C'erano poi note sintetiche sugli sviluppi scenici, affidati per lo più agli interventi dei mimi: un connettivo che poteva apparire scaltro e che doveva risultare soprattutto poetico. La proposta venne accettata senza riserve... ma con qualche clausola. Mentre l'autore si era dimostrato remissivo e discreto, il regista rivelò tutta l'impetuosità del suo temperamento. Eppure fu proprio qui che evidenziò la grana del talento artistico e la fibra poetica del suo mestiere. Di enorme capacità inventiva, riusciva ad attivare in tutti coloro che lavoravano al suo fianco una collaborazione che si traduceva in apporti preziosi. Era uno sempre attento e disponibile a cogliere i suggerimenti di coloro che aveva coinvolto nel suo impegno. Un atteggiamento che scaturiva dalla intelligenza e dalla serenità giovanile con la quale svolgeva il suo mestiere. "Eloisa ed Abelardo" risultò edizione memorabile. Era l'anno 1978. Due anni dopo mi telefonò ancora. "Vorrei fare proprio costì a San Miniato "Conversazione con la morte" di Testori. Come attore". Risposi che non ero più direttore, che quel magnifico testo poetico era già stato letto in scena dall'autore, ma che si poteva proporre come una cosa fuori edizione. Intanto suggerivo, dato che il monologo ammette oltre al protagonista, un solo personaggio (la morte, nella figura di una capretta che sta sempre al suo fianco), di allevare una capretta per il tempo di renderla perfettamente mansueta e familiare. "Ma che mi pigli in giro" mi disse: "Ma forse, hai ragione!" Pochi mesi dopo cadde gravemente malato e scomparve. A volte ho dovuto ripensare a questa sua idea della "Conversazione con la morte". Forse la sentiva già vicina questa capretta, ormai così vicina da potergli suggerire la battuta...



Titolo dell'intervento: "Una testimonianza inglese"
Relatore: John Francis Lane
in qualita' di: critico

Una sera nell'anno 1967, era di primavera e verso la fine della stagione teatrale a Roma, ebbi un appuntamento all'Hotel de la Ville con Franco Enriquez. Mi aveva telefonato invitandomi a prendere un drink con lui e Valeria e magari andare a cena. Ci conoscevamo già ma senza essere amici. C'eravamo incontrati anche in Inghilterra dove Franco era molto rispettato, sopratutto a Glyndeboun e dove aveva messo in scena qualche Mozart. In quel periodo scrivevo recensioni dall'Italia per il "Times" e questo sul piano "mondano" mi sfruttavo molti inviti a cena. Ma il motivo della convocazione da Franco quella sera non fu di sollecitare qualche attenzione giornalistica in più. Voleva semplicemente un mio consiglio. Mi raccontava che dopo il successo l'anno prima della sua messinscena in un campo veneziano di "La Locandiera", la Biennale l'aveva invitato a fare un altro Goldoni. Il testo che Franco ha scelto era "La Vedova Scaltra". Mi confidava che aveva in mente di affidare le parti dei tre cavalieri "forestieri" ad attori della nazionalità indicata da Goldoni anche se l'autore al suo tempo aveva scritto le battute in lingua e senza minimamente pensare ad interpreti della nazionalità dei personaggi appunto francese, spagnolo e inglese. Il consiglio che Franco richiedeva era di trovare un attore inglese che magari potesse recitare in italiano la parte del Milord Runebif. Mentre parlavamo, Franco mi guardava e sopratutto ascoltava il mio accento che malgrado i quindici anni già vissuti in Italia era tuttora quello che Sophia Loren una volta scherzosamente mi indicò come degno di "una governante inglese". Ad un certo momento mentre io cercavo di suggerire qualche nome, Franco mi interrompò, dicendo "Certo l'ideale sarebbe uno come te. Peccato che non sei un attore". Per un momento esitai con la paura di minimizzare la mia professionalità come critico, ma poi presi coraggio e confessò: "Ma veramente sono un attore". E spiegai che avevo cominciato la mia attività nel mondo dello spettacolo proprio come attore, che ero iscritto al sindacato degli attori inglesi l'Equity dal 1947, che avevo abbandonato la carriera di attore a Londra perché ansioso di allargare i miei orizzonti culturali facendo il giornalista, prima a Parigi poi a Roma. Ma già da qualche anno avevo saltuariamente ripreso a recitare a Roma, al teatro in inglese, e qualche volta in cinema (mentre con Fellini avevo fatto solo la comparsa, avevo recitato particine di rilievo in films di registi come Dino Risi, Marco Ferreri, Riccardo Freda ecc...). A questo punto, Franco non volle più sentire parlare di altre soluzioni. Dovevo essere il il suo Milord. I dubbi magari li avevo io, ma già la sua fiducia in me mi stimolava. L'idea divertì molto Valeria quella stessa sera quando andammo a cena insieme, ma forse a Lei qualche dubbio sulla mia capacità professionale ci fu! In quel periodo la Gran Bretagna non fu ancora associata alla Comunità Europea quindi ci furono anche dei problemi sindacali. Il fatto che io fui da anni Iscritto all'Equity aiutò molto, ma il permesso di lavoro fu concesso soltanto per le recite veneziane e per la registrazione televisiva che doveva essere fatta prima a Torino in tal modo - tanto era il "sistema" del teatro italiano! - le prove sarebbero state coperte dalla trasferta RAI a Torino. In un secondo tempo, dopo le recite veneziane, un attore italiano avrebbe dovuto sostituirmi per la tournée italiana. Ci riunimmo quell'estate a Sirolo dove avremo dovuto fare qualche prova. Invece passammo delle bellissime giornate a fare bagni e fare grandi mangiate di pesce, e a conoscerci meglio. Non parlammo quasi per niente di La Vedova Scaltra. La riunione di tutta la compagnia si sarebbe svolta a Torino a fine estate. Mi ricordo la prima lettura a tavola a Torino negli studios della RAI. Il piano era di registrarlo un pezzo alla volta e poi riprovare tutto in teatro a Venezia a pochi giorni dalla prima alla Biennale. Franco mi diede un consiglio importante. Aveva capito che gli altri attori, grandi professionisti come Mario Scaccia, Paolo Ferrari, Adriana Innocenti oltre naturalmente alla stessa Valeria, potevano dimostrare ancora qualche perpelssità sulla mia professionalità. Mi conoscevano tutti come critico, non come attore. Quindi forse avevo bisogno di conquistare subito la loro fiducia (anche perché il tempo di prove era ristretto). Mi suggerì Franco di fare una cosa che di solito "non si dovrebbe fare" alla prima lettura: darci il tutto, facendo capire che il mio accento inglese sarebbe stato una della "trovata" originali dello spettacolo. Enriquez, infatti, aveva dovuto rinunciare alla sua idea di fare interpretare tutti e tre i forestieri con autentici "accenti". Per il francese aveva chiamato José Quaglio che pur essendo un parigino (dove faceva più regista che attore) era italianissimo. Per lo spagnolo invece aveva chiamato quello stupendo attore che è Mario Scaccia il quale non aveva bisogno di un accento "finto" per dare vita al gustosissimo personaggio goldoniano. In ogni caso, a quella prima lettura, riuscì a fare ridere anche i colleghi e credo che mi abbiano rispettato da qual momento. Lavorando con Franco durante la registrazione a Torino (purtroppo fu necessario, come si usa in TV, fare un pezzo alla volta) mi resi conto "dal dentro" di quanto Franco era "una bestia teatrale". Lavorando in quelle condizioni senza la possibilità mai di provare un intero atto tutto di seguito - e con l'incubo che fra pochi giorni dovevamo recitare l'intera commedia in palcoscenico - fu merito di Franco che riuscimmo ad andare avanti. Finita la registrazione a Torino, ci trasferimmo a Venezia dove senza avere ancora a disposizione La Fenice (dove altri spettacoli erano in corso per il Festival del Teatro) fummo costretti a provare al Lido in quel brutto teatro della Perla al Casinò. Erano giornate, o piuttosto nottate, di un ottobre nebbioso e spesso rientrando in albergo nelle ore piccole della mattina trovammo i motoscafi che traversavano la laguna a passo d'uomo. Solo la pazienza e l'infinita sensibilità di Franco, con un pizzico di testardaggine e diciamolo sfacciataggine, ci salvarono. I colleghi, con Valeria in testa, erano disperate. "Non ce lo faremo ad essere pronti" sentivo dire. lo solo mi divertivo. La sera della Prima - che fu veramente la prima volta che avremo recitato tutto di fila! - mi trovavo seduto al caffè - ristorante "Al Teatro" nel campiello accanto alla Fenice. Mancava un'ora all'alzarsi del sipario. Avevo ordinato un piatto di uova e prosciutto. Avevo fame. Al momento che il cameriere mi portava davanti il piatto e mi alzavo la forchetta, una mano me lo portava via dall'altra parte. Era Franco, furibondo. "Disgraziato! Non sai che prima di recitare non si deve ne fare l'amore ne mangiare!". Era l'ultima di tante lezioni professionali che avevo imparato da Franco Enriquez. Se me la sono cavato abbastanza bene in quello spettacolo, lo dovevo a lui. Durante l'intervallo venne in camerino e mi disse che stavo riportando un successo personale. In quel momento capii che anche lui ne era un po' sorpreso. Forse non ce l'aveva creduto ma era stato molto bravo a nascondermelo. Sei anni più tarda nel 1973, tornai a lavorare con Franco, per uno spettacolo di Beckett che, ormai direttore artistico del Teatro di Roma, fece al teatrino che lui aveva ribattizzato "Flaiano". Mi chiese di tradurre in italiano il monologo "Non io", quel lungo delirio di una bocca, isolata dal resto del corpo. Franco aveva avuto l'idea meravigliosa di affidare la parte alla bocca di Laura Betti. Mi toccò non soltanto di tradurre il testo ma anche di aiutare Laura a impararlo a memoria. Poi quando si avvicinava alla prima rappresentazione, Franco mi fece un brutto scherzo. Mi volle di nuovo "come attore", ma soltanto come figura mascherata di nero che secondo le indicazioni di Beckett si muove nel penombra due volte durante il monologo "della bocca". Conoscendo il testo a memoria ero l'unico che poteva essere d'appoggio a Laura. L'avrei dovuto fare solo per la prima sera ma poi naturalmente, Franco mi convinse di continuare per le repliche. Era difficile dire di No a Franco Enriquez. Poi, in fondo, gli ero così grato per avermi dato la possibilità ne "La Vedova Scaltra" di vivere la mia esperienza italiana più bella. Qualche mese prima della sua morte lo incontrai a Firenze. Mi diede un appuntamento per il giorno dopo. Mi voleva parlare di un altro suo progetto. Non venne all'appuntamento. Ero arrabbiatissimo. Mi dissero che non stava bene e che spesso, suo malgrado, mancava agli appuntamenti. Gli perdonai. Dopo, quando ho saputo della morte, sentivo la sua mancanza due volte, come critico (il teatro italiano aveva bisogno di "bestie teatrali" come lui) e come attore. Ma la sua mancanza lo sentiamo tutti come amico. E basta.



Titolo dell'intervento: "La diligenza del buon teatro"
Relatore: Nuccio Messina
in qualita' di: Direttore di Veneto teatro

Irruente, generoso, trascinatore. Lavoratore instancabile, ingegnoso progettista, artista eclettico, fantasioso artigiano. Queste le doti che possiamo riconoscere a Franco Enriquez, noi che con lui abbiamo lavorato nelle lunghe giornate e nelle affascinanti notti in cui nasce l'evento teatrale. Ha lasciato il teatro improvvisamente, a soli 52 anni. Quel "suo" teatro che aveva tanto amato e sofferto. Ha lasciato una vita di rapporti umani realizzati con gioia e con slancio, ma possiamo pensare che al di là del mistero della morte o addirittura dentro ad esso, abbia saputo trovare la felicità di nuove scoperte, di sorprese spirituali alle quali era sempre aperto e disponibile. La scena drammatica ha perso un cocchiere solido e operoso, che sapeva condurre gli spettatori su strade di grande fascino; guida brillante, con quel tanto di estrosità non meditata che bastava per permettergli di cogliere e di offrire, d'un tratto, il momento magico del Teatro. Aiuto di Visconti e di Herbert Graf, aveva assimilate - da loro e dal musicista Vittorio Gui al quale era legato da parentela acquisita - l'amore per il teatro in prosa e in musica e la capacità di tradurne i messaggi in azioni di gusto eccellente, di bella rappresentazione, di piacevole incontro anche per il pubblico più sprovveduto delle grandi platee popolari. Aveva ideato e realizzato la famosa "Compagnia dei quattro", uno dei pilastri del rinnovamento della scena italiana negli anni '50: con Glauco Mauri, lo scenografo Lele Luzzati e Valeria Moriconi, la compagna di tutta la vita, di tutte le lotte. Franco e Valeria, due sfolgoranti carriere parallele, sulla traballante splendida insostituibile diligenza del buon teatro. Con lei fece gli spettacoli più belli, di maggior diletto per il pubblico; e ricordo solo una "Locandiera", di cui Goldoni sarebbe stato contento, e quella "Bisbetica domata" dalle mille recite, che un giorno riallestimmo addirittura a Kiev, nel cuore dell'Ucraina, sostenuti dall'entusiasmo di Enriquez nella difficoltà di prove generali rese più ardue dall'ambiente straniero in cui operavamo al suo fianco; egli intravedeva il successo incontrastato che avremmo avuto (e che venne) nell'imminente debutto al Teatro del Cremlino a Mosca. E i due altri spettacoli scespiriani, "Come vi piace" e "Il mercante di Venezia", forse tra quelli di maggior spicco nella storia del Teatro Romano di Verona. E, infine, l'ultima fatica che ci ha visti uniti, a Trieste: "Storie del bosco viennese" di Horvath. spettacolo che ha dato a noi, agli attori e al pubblico molte soddisfazioni, sino al memorabile debutto al Burgtheater di Vienna. E poi seguiva un grande progetto, per la realizzazione di una edizione italiana de "L'uomo do mondo" di Goldoni, che gli era stato commissionato dal Festival di Bregnz 1981 e che avrebbe potuto inserirsi nel repertorio della nuova struttura di produzione dei Veneto -VENETO teatro- in via di costituzione. Così il progetto di VENETO teatro è diventato un impegno, nel suo ricordo, affinché il suo sipario rimanga sempre aperto, come egli aveva insegnato a fare.



Titolo dell'intervento: "La perfezione della semplicità"
Relatore: Franz De Biase
in qualita' di: Presidente E.T.i.

Parlare di Franco Enriquez è, in certo modo, parlare di teatro, del nostro teatro in particolare. Dal teatro egli era affascinato, tentato da questo gioco del riprodurre la vita reinterpretandola, riscrivendola a più mani. Nel lungo corso della sua esperienza di teatrante egli ha rappresentato, ed ancora oggi rappresenta in modo insostituibile, uno dei perni della storia teatrale del dopoguerra: ha tentato, con successo, attraverso la costituzione della mai dimenticata "Compagnia dei quattro", la prima "stabile" privata, cercando, poi, con successo, di attivare e promuovere, attraverso di essa un organismo stabile pubblico nella città di Napoli, ha vissuto intensamente la vita ed il farsi dei fermenti del teatro romano di quella stagione difficile e suggestiva in cui si cercava di incentivare e sviluppare il teatro Pubblico per svolgere una cultura e una militanza attiva nell'impegno concreto e quotidiano per il Teatro. Enriquez ha sempre sostenuto, perché lo credeva profondamente, che il teatro si fa' a più mani attraverso il confronto quotidiano ed aperto tra attori, regista e testo e che proprio in questo quotidiano confronto risiedeva la forza fascinatrice del "Teatro": l'essenzialità della sua regia lo faceva nel contempo rispettoso del testo ed interprete disincantato del suo messaggio nella consapevolezza che ogni realtà ne cela un'altra sconosciuta e profonda, che andava ritrovata e visualizzata: la grande semplicità dei problemi che si muovono nell'animo umano. Attraverso l'attento esame della drammaturgia classica, ed in un rispetto profondo della loro testualità, seppe ritrovare nuovi modi di lettura, nuove immagini che, assieme alle antiche, si giustapponevano le une alle altre in una convivenza che le ridefiniva pur lasciandole immutate: ed il pubblico in tutto il mondo gli ha sempre riconosciuto questo entusiasmo, questo stare dalla sua parte alla ricerca della semplice verità: la sua opera è stata l'ininterrotta ricerca attraverso ogni elemento, ogni concreta situazione che gli si offriva per avvicinarsi a questo incontro. In questa ricerca della semplicità ultima, scevra da tentazioni di falsi intellettualismi e di fumose immagini simboliche, risiede la specifica originalità del Suo essere regista: il teatro era per Lui un mezzo attraverso il quale raggiungersi e, quindi raggiungere gli altri. E dei resto la Sua sensibilità che lo portava ai grandi padri lo spingeva con altrettanta vitale insistenza verso la nostra contemporanea, languente drammaturgia, per la quale Franco ha sempre combattuto cercando di rivitalizzarla di ritrovarla, credendo fino in fondo e con impegno personale che essa potesse, e meritasse di essere e di farsi. Chi, come me, ha condiviso con Lui, non solo le attese, ma anche la storia di tanta parte della nostra vita teatrale, non ha dimenticato, né potrà mai dimenticare quello che Franco Enriquez ha rappresentato per il Teatro italiano nel suo lungo e difficile periodo di ricostruzione e di ripresa.
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